La questione del rischio legato al parlare male del proprio datore di lavoro in una chat WhatsApp è più attuale che mai.
Soprattutto in un’epoca in cui la comunicazione digitale è parte integrante della nostra vita quotidiana. Un nostro lettore ha condiviso la sua preoccupazione riguardo a un episodio di critiche aspre rivolte al suo datore di lavoro in una chat privata con un collega. Ora teme che queste parole possano arrivare all’orecchio del datore e sfociare in una denuncia per diffamazione o, peggio, in un licenziamento. Ma quali sono realmente i rischi e quali le tutele per il lavoratore?
Le conversazioni private su WhatsApp possono essere diffamatorie?
Partiamo dal concetto di diffamazione. La legge italiana definisce la diffamazione come un’offesa alla reputazione di una persona assente, comunicata a più persone. Questo implica tre elementi chiave: l’uso di un linguaggio offensivo, l’assenza della vittima al momento dell’offesa e la comunicazione a più di una persona. In una chat WhatsApp, la diffamazione potrebbe configurarsi se il messaggio offensivo viene condiviso con almeno due persone, oltre l’autore.
Tuttavia, se la conversazione è strettamente privata, tra due persone, e non c’è alcuna intenzione di diffondere ulteriormente il contenuto, non si costituisce il reato di diffamazione. La giurisprudenza italiana ha chiarito che la presenza della vittima nella chat non esclude la sussistenza del reato se il messaggio viene letto in un secondo momento. Al contrario, se la vittima legge in tempo reale, non si configura il reato di diffamazione.
È importante distinguere tra un’espressione ingiuriosa estemporanea e un comportamento reiterato. Nel caso in cui una persona ripeta le stesse affermazioni offensive a più individui in momenti diversi, potrebbe configurarsi una diffamazione. Allo stesso modo, se ci si esprime in termini diffamatori sapendo che il destinatario condividerà il messaggio con altri, si potrebbe incorrere in problemi legali. Tuttavia, se il mittente ignora che il messaggio verrà divulgato, la diffamazione non sussiste.
Si può essere licenziati se si parla male del datore di lavoro?
Il diritto di critica è garantito dall’articolo 21 della Costituzione italiana, ma non è illimitato. Le critiche devono essere contenute e basarsi su fatti veritieri o ragionevolmente credibili. Superare questi limiti può costituire una giusta causa di licenziamento, anche se non si verifica un reato di diffamazione. La Corte di Cassazione ha ribadito che il superamento dei limiti della continenza formale e sostanziale può portare al licenziamento.
Detto ciò, se le critiche avvengono in un contesto privato, come una chat tra due colleghi, e non c’è intenzione di diffonderle pubblicamente, la situazione cambia. La Corte d’Appello di Firenze, ad esempio, ha stabilito che espressioni offensive in una chat privata non costituiscono giusta causa di licenziamento. È fondamentale considerare il contesto e l’intenzione dietro le parole. Se non c’è l’intenzione di diffondere le critiche e se queste avvengono in un ambiente confidenziale, è meno probabile che si configuri una giusta causa di licenziamento.
Infine, anche la motivazione e lo stato emotivo del dipendente al momento delle critiche possono influire. Se lo sfogo è motivato da situazioni lavorative stressanti, come ritardi nel pagamento dello stipendio o comportamenti ingiusti del datore, potrebbe essere considerato in modo meno severo.
In sintesi, mentre le conversazioni private su WhatsApp possono sembrare innocue, è essenziale prestare attenzione al linguaggio usato e al contesto in cui si esprimono le critiche. Le leggi italiane offrono alcune tutele, ma è sempre meglio procedere con cautela per evitare conseguenze indesiderate.